Moretti sosteneva che solo gli addetti ai lavori potessero parlare di cinema. Io credo invece che chiunque ha il dovere di esprimersi su tutto ciò riguardi la sfera percettiva ed emozionale.
“L’arte” nasce per emozionare potenzialmente tutti ma questa moltitudine, stando a Moretti, poi dovrebbe tacere.
E’ proprio lo snobismo filoborghese di certi guru che ha portato al declino dell’ “ideologia” di sinistra a favore della sola “estetica” ormai proprietà intellettuale esclusiva degli opinion leader di twitter e di Paolo Virzì. E a favore del bastiancontrarismo a tutti i cazzo di costi, ovviamente.
Se scorgessi due vecchi al bar litigare per difendere ciascuno la propria interpretazione di “Lost in Traslation” ne sarei felice ecco. Moretti meno. O meglio: l’importante è che non smerdino i suoi film.
Detto questo parliamo di Sorrentino.
La Grande Bellezza è in senso “assoluto” un buon film, questo è indubbio, con un’ottima fotografia ed una elegante regia. Una bella figa che su facebook però pubblicherebbe in continuazione citazioni già sentite ovunque, che non vogliono dire un cazzo e che, soprattutto, non le appartengono.
E’ presto detto, se si considerano le influenze e i precedenti, La Grande Bellezza va considerato per forza come un film acerbo che pecca di presunzione. Sorrentino (molto probabilmente il miglior regista in circolazione qui in Italia) qui toppa alla grande.
L’omaggio a Fellini diventa un mero scimmiottare ai limiti del ridicolo e tra un ossequio a “Roma” e un inchino ad “8 1/2” non si capisce dove sia Sorrentino, che poi irrimediabilmente alza la voce in sceneggiatura facendo crollare il castello di carte, fin qui quantomeno bello a vedersi.
La scrittura è di un paternalismo insopportabile: il dialogo tra il protagonista e la snob intellettuale sul terrazzo diventa, forse suo malgrado, la chiave di lettura del film. Una scena che dura troppo e che in teoria dovrebbe rappresentare tutto il male di una classe eticamente a pezzi, smaschera i limiti del Sorrentino sceneggiatore che affetta i profili dei protagonisti col machete rendendoli insopportabili non tanto per antipatia quanto per inefficienza. Qui l’intellettuale snob diventa Sorrentino, che come Moretti dei tempi che furono, dall’alto della sua visione illuminata, sputa sul piatto in cui mangia. Sì, quella donna è insopportabile: il problema è che lo è fin troppo. E se la cosa fosse voluta al 100% tutto quel dialogo diventerebbe di per sé inutile; solo fuffa tra snob.
Fuffa su fuffa.
Basterebbe un aggettivo per l’intera operazione: pleonastico. Eppure in questo infinito blaterare a vuoto c’è pure chi c’ha visto dell’indulgenza, della speranza. C’è chi non c’ha capito un cazzo insomma.
Anche quando si tenta di parlare del “nulla” che circonda il mondo già vacuo dell'”artista” [presunzione e ambizione massima per chi racconta] il risultato non è pessimo ma sicuramente non raggiunge l’universalità e la poesia prefissate. Aria fritta sostanzialmente. Fritto misto romano.
Jep Gambarella poi, che dovrebbe aspirare alla profondità di quel Guido Anselmi che Mastroianni rese immortale, alter ego del regista, in questo caso non più cineasta ma scrittore, vive – soltanto – nelle rughe d’espressione di quell’arma a doppio taglio che è Servillo, nelle sue esitazioni, nel suo sguardo. Il personaggio in sé è pochissima cosa.
Il problema del film per me è solo uno, ma definitivo: non c’è spessore (né innovazione). Non c’è una voce abbastanza esperta e importante da potersi permettere un predicozzo e un’ambizione simile. A-CER-BO. Punto. Nella scrittura prima di tutto. Troppo presto per l’opera definitiva insomma.
Fellini, che è stato e sarà probabilmente il miglior “narratore” di sempre, si permise questo check point dopo sette film (e mezzo), Sorrentino quantomeno per falsa modestia avrebbe dovuto aspettare il nono.
Qui siamo su PANINO + FILM quindi vi consiglio di sfondarvi di supplì e romanella.
Sono felice che abbia vinto l’oscar, ma “IL SOSPETTO” (The Hunt) di Thomas Vinterberg, il film danese candidato nella stessa categoria, era (secondo me) decisamente migliore.
Chiudo con un pensiero di Gianni Amelio a proposito di “8 e 1/2” e tutte le sue brutte copie, che getta una lapide su qualsiasi tentativo di emulazione passato e futuro.
A un tale che gli domandava se non fosse infastidito dalle tante imitazioni del suo capolavoro, Federico Fellini rispose che non ne vedeva la ragione nessuno imitava 8 1/2 per il semplice fatto che 8 1/2 non era più solo un film ma l’antesignano di un genere nuovo. Come se John Ford si fosse arrabbiato a vedere che qualcun altro girava un western, o Ernst Lubitsch avesse gridato al plagio per chi s’azzardava a fare una commedia…
Il maestro si poteva permettere queste e altre arguzie. O forse anche nella boutade diceva una cosa seria. 8 1/2 è il genere caro a tutti quei registi che hanno paura dei generi (scusate il bisticcio, ma è così) e proprio per questo nessunoo lo può praticare senza perdere la faccia. Di 8 1/2 non si può tentare nemmeno la parodia: non si farebbe ridere, si cadrebbe nel ridicolo. E c’è stato un caso – il Woody Allen di Stardust Memories naturalmente – dove il ricalco era così dichiarato da risultare un devoto pellegrinaggio.
Alla sua uscita, nel 1963, lo vidi in uno stato di euforia. Mi ricordo che sbagliai l’orario ed entrai in sala qualche minuto prima della passerella finale. Forse fu un bene. Fu la chiave giusta per entrare nell’inaudita (allora) arditezza del racconto. L’epilogo poteva diventare prologo, la realtà sostituirsi al sogno, e il sogno rivelarsi come la messa in scena possibile dei rimorsi e delle gioie. Fellini esprimeva questo e altro in un film che, come disse allora lui stesso “non mi è costato nessuna fatica”. Era insieme (questa affermazione) una grande bugia e una grande verità. Faticoso è per un regista un film che lo respinge senza che lui se ne accorga, che non si lascia amare, che mette all’angolo ogni giorno il suo artefice e lo costringe a difendersi con le acrobazie del mestiere. 8 1/2 è il contrario di tutto questo: è, nella sua complessità il film più “leggero” del mondo. La fatica di chi l’ha fatto non si sente perché l’ispirazione non fa sudare; e il talento vero, quando c’è non chiede altro che di mettersi alla prova.
Il pericolo che corrono alcuni grandi film è di essere col passare del tempo superati dalla propria fama e di deludere lo spettatore nuovo che li vede per la prima volta. 8 1/2 , padre di un genere che non esiste, questo pericolo non lo corre. Anche se Fellini sarà costretto in eterno a salutare con un sorrisetto la schiera dei suoi epigoni.Gianni Amelio, IL VIZIO DEL CINEMA, einaudi , 2004
"Aria fritta sostanzialmente. Fritto misto romano." cit.