Dopo 8 lunghissimi anni i nove mascherati dell’Iowa sono tornati, ma con alcune novità. In primis: i due nuovi membri (oltre alla morte del bassista Paul Gray avvenuta nel 2010 – a cui l’album è evidentemente dedicato – è seguita nel 2013 la separazione con il batterista -e cofondatore- Joey Jordison per divergenze musicali -almeno così pare). A questi due assenti celebri sono subentrati… Boh!
È questa la cosa strana: girano solo voci su chi siano i nuovi due degli Slipknot e viste le maschere queste voci per il momento restano tali (si parla di Alessandro Venturella al basso e Jay Weinberg alla batteria); fatto sta che finalmente sono tornati con “.5: the Gray Chapter”, in uscita domani in Italia ma acquistato dal sottoscritto Sabato in Germania.
Per un fan degli Slipknot (o meglio, uno dei “Maggots”) parlare del nuovo album dei nove è come quando dopo tanti anni si rivede la tipa per cui avevi una cotta quando eri ragazzino: avrà un taglio diverso, qualche chiletto in più o in meno, ma è sempre lei. Quindi cerchi di capire squadrandola sotto ogni punto, cosa c’è di nuovo in lei e cosa c’è di “vecchio”. Così è stato per quest’album che ho ascoltato parecchie volte prima di arrivare a delle conclusioni.
Dopo l’introduttiva “XIX” (un cazzotto allo stomaco ogni volta: molto cupa), l’album si apre con “Sarcastrophe”, un pezzo che dopo un crescendo strumentale ci riporta in pieno alle sonorità che i nove di Des Moines ci avevano regalato con quello che è il loro capolavoro assoluto: “Iowa”. Grazie a riff molto bassi e ritmiche sincopate gli Slipknot sembrano voler tornare indietro negli anni per riproporre quella rabbia e quel disgusto per la società che li ha resi celebri in tutto il globo. L’album per tutta la sua durata cerca di coinvolgere l’ascoltatore in quelle che erano le loro sonorità passate, come ad esempio “Custer” che ricorda il loro primo album (l’omonimo datato 1999), “Nomadic”, che ripercorre le sonorità del loro terzo album “Vol. 3” e il primo singolo “The Negative One” che sembra essere un pezzo delle origini della band per cattiveria e per i riff del duo Root-Thomson.
Un misto di classico, violenza, tristezza che fa cadere tutti in un vertice di emozioni, ma non mancano neanche le novità, come ad esempio il secondo singolo “Devil in I”, pezzo molto spettrale in cui la voce di Taylor è in primo piano in una melodia letale per l’anima. Poi c’è “Killpop”, pezzo con un intro elettronico che stupisce il fan di vecchia data come me, per poi però schiudersi con un sound triste in cui la frase finale “Die and f*****g love me” risuona come un martello nella testa.
Si potrebbe parlare per ore di questo lavoro, proprio come della ragazzina per cui avevi una cotta, puoi spiegare perché ti piaceva, e puoi anche dire cosa ci trovi di bello oggi, ma finché i tuoi amici non la vedranno con i loro occhi non crederanno a nulla di quello che dirai.
Ascoltate questo lavoro intriso di ogni sentimento negativo. Non siamo emo e non siamo ai livelli di Iowa, ma ne vale decisamente la pena!