Oggi parliamo di un thriller psicologico di quelli che non si dimenticano facilmente, sempre se lo spettatore è in grado di calarsi totalmente nella tortuosità onirica suggerita dalla storia, un continuo rimescolarsi di realtà e fantasia che si riesce ad interpretare soltanto grazie ad un finale risolutore, l’ultimo pezzo di un puzzle che si compone scena dopo scena.
Henry è uno studente che ha deciso di suicidarsi il giorno del suo ventunesimo compleanno, Sam è lo psichiatra che lo ha in cura e che lentamente inizierà a soffrire delle stesse allucinazioni di cui soffriva Henry, nel momento in cui comincerà ad indagare sul passato del giovane. Rivelare altro sarebbe un errore, alla luce di un plot che è un continuo incastro di elementi che di base non hanno nulla di originale (i richiami a Lynch sono palesi), ma che proprio nell’ultima parte ci fanno raggiungere quel punto di vista spiazzante su cui si basa tutta la pellicola. Qualcuno potrà restare deluso (soprattutto chi non ha afferrato a pieno le sfumature di cui sopra), ma ciò che conta è la sostanza e va detto che i novanta minuti di “Stay” scorrono in modo positivo, con uno sfondo metropolitano che sottolinea e ricalca le intenzioni del film e con una colonna sonora cerebrale tra cui spiccano i Massive Attack.
Il cast è notevole ma recita un filo al di sotto delle aspettative (in particolare lo psichiatra, Ewan McGregor, che ho preferito in altre pellicole), il resto passa sotto le ali sapienti di Marc Forster, bravo nel saper far quadrare il cerchio di una storia delicata, che fa riflettere, complicata da mettere in scena ma qui assolutamente coesa e coerente dal primo all’ultimo minuto. Un film sulla vita in punto di morte o sulla morte in punto di vita, mettiamola così. Profondo, non banale, criptico e anche trasversale, come il destino ed i sogni che lo (de)costruiscono in una spirale avvolgente. “Se questo è un sogno c’è un mondo intero dentro”.