Una delle domande più frequenti che vengono poste a un autore è la seguente: Da dove prende ispirazione per i suoi racconti?
Noi di Trashic Magazine rivolgiamo la stessa domanda a Giuseppe Casa.
“Intanto, non parlerei d’ispirazione, non mi sento ispirato da nulla. Sono assolutamente incapace di trovare ispirazione in alcunché, c’è molta lettura dietro a quello che scrivo, e quando qualcosa mi colpisce rifletto su quello che ho letto, riflessione mediata anche dall’iper-realtà che mi circonda, che qualcuno in passato chiamava l’assurdo, come in questo racconto che parla di salute e medicina. Il sistema dei farmaci, nella pratica medica, e non solo, penso anche alla medicina fai da te, altro non mi sembra che una variante dell’idea di Provvidenza – tema principale ne I Promessi Sposi, l’idea, cioè, che Dio ci venga in soccorso per aiutare a realizzare il nostro destino.
Lo zelo nell’anticipare la volontà divina, nonché l’espiazione della colpa, mi sembra una pratica molto diffusa tra i medici che prescrivono farmaci ai primi sbalzi d’umore del nostro organismo. Da questo punto all’immortalità del corpo, e dell’anima, il passo è breve. Ci vorrebbe una medicina più umana, rispettosa della soggettività del malato, rispettosa della sofferenza come luce e orrore dell’esistenza”.
Io sono la piaga e il coltello! sono la guancia e la percossa! Sono la vittima e il boia, lo slogatore e le ossa! (da Les Fleurs du Mal, Charles Baudelaire)
(I nomi sono stati cambiati per proteggere i colpevoli)
Mi guardavo allo specchio e non vedevo più la mia immagine riflessa. Dov’ero finito? Inoltre un dito della mano, l’indice? Aveva perso totalmente la sensibilità. Lo guardavo. Lo toccavo. Non lo sentivo più. Era morto?
Avevo chiesto aiuto a Lory, la mia ragazza. “E mi chiami a quest’ora per una stronzata del genere?”
Guardai l’ora. Le tre di notte, in effetti. Comunque dissi: “Mi sembra grave”, continuavo a sbattere dito medio e indice contro, come si faceva a militare quando battevi la stecca.
“Come fai a dirlo?”
“L’ho letto su Internet,” dissi, e iniziai a leggere, “la mancanza di sensibilità alle dita potrebbe indicare un attacco ischemico transitorio… potrebbe sfociare in un ictus“.
La cosa era assurda, perché ero uno sportivo, un mezzofondista che faceva un’ora di corsa al giorno, con un regime alimentare esemplare. Non fumavo più nemmeno le canne, e sapevo che l’ictus veniva a chi conduceva una vita disordinata, fatta di spropositi alimentari a base di cibi grassi e mancanza di attività motoria.
Lory era rimasta in silenzio.
“Che mi dici?”
“Non lo so… sto dormendo, cosa vuoi che ne sappia” disse parecchio scocciata, “é un’altra delle tue paranoie”.
Forse aveva ragione. Dieci giorni prima ero andato a un ambulatorio di dermatologia per degli strani puntini rossi che mi erano venuti sul collo, anche dei dolori ai muscoli. La dermatologa disse che potevano essermi venuti a causa di uno stress o un colletto di camicia lavato male, che mi aveva creato un po’ di allergia. Lory era più propensa a credere nella seconda ipotesi. In effetti, la mia lavatrice era mezza rotta e a volte non strizzava bene i panni. Lory mi aveva sempre considerato un salutista con grossi problemi di igiene. Lory mi aveva sempre considerato una via di mezzo fra un pensionato demente e un ragazzino strafatto di canne. Per questo motivo aveva deciso di non convivere con me, e sapevo che prima o poi mi avrebbe lasciato.
La perdita della sensibilità a volte può annidarsi nel cervello. Quindi o era un’emicrania o era un ictus. Per la prima volta nella mia vita veniva fuori la parola ictus.
“Domani ti porto dal ditologo, va bene? Ora lasciami dormire…”.
Di solito ero dotato di prontezza di spirito ma stavolta non riuscivo a scherzarci sopra.
Il giorno dopo attraversai l’ospedale aggrappato al braccio di Lory. Quella notte non avevo dormito neanche mezzo minuto. Un’ora dopo un’infermiera ci fece accomodare in un cubicolo chiuso da tendine in PVC. Indossai uno di quei camici da ospedale che si legano dietro la schiena, il cui unico scopo, a mio avviso, é quello di mortificarti. Rimasi così un’altra mezz’ora e poi arrivò un medico del Pronto Soccorso. Dopo una serie di piccoli esami il dottore disse:”Bene”. Ma era chiaro che intendeva “male”. Dopodiché venni messo su una barella e portato a fare una TAC in un’altra ala dell’ospedale. Più tardi m’infilarono in una macchina e dal soffitto arrivava una musica dolce, eterea, tipo Enya, un incantesimo celtico che incoraggiava una resa completa a un mondo immateriale di pura luce. L’esperienza durò soltanto dieci minuti. Era possibile perdere se stessi ma non la nozione di tempo. Mi sarebbe piaciuto restare lì delle ore, anche un giorno intero. Ma non volevo farmi ipnotizzare. La TAC fece una mappa di qualunque cosa fosse successo al mio cervello.
Gli esami che mi fecero dopo comprendevano un ecodoppler e un’ecografia delle arterie che, secondo il tecnico che la eseguiva, dovevano dirci “a che punto siamo”. Sentivo il mio cuore sibilare e scrosciare sul monitor. Ignoravo se quei suoni fossero normali, ma avevo una fiducia assoluta nel mio apparato cardiovascolare.
Due ore dopo appresi che mi avrebbero trattenuto per la notte in ospedale per sottopormi ad altri esami. Lory tornò a casa a prendere varie cose di cui avrei avuto bisogno durante la degenza.
Ebbi la sensazione che sotto i miei piedi stesse per aprirsi una botola che mi avrebbe sprofondato all’inferno. Non riuscivo a crederci, un ictus a cinquant’anni. Ero sempre stato convinto di avere una salute di ferro.
Intanto un notiziario in tv mi avvisava che c’erano manifestanti che venivano uccisi in Africa. Scienziati che scoprivano nuovi vaccini in Cina. Incendi in un parco nazionale in America. Inondazioni in India. Sbarchi di immigrati in Sicilia.
Durante la notte, ogni volta che stavo per addormentarmi entrava qualcuno per controllarmi la pressione, il polso, la temperatura, per fare un altro prelievo di sangue o per monitorare qualsiasi cosa stesse succedendo nelle vie e nei vicoli del mio corpo.
La mattina dopo arrivarono i dottori.
“Qualcosa ha mandato il suo colesterolo alle stelle, e ha avuto un ictus” fece il neurologo. “Fa uso di droghe?”
“No”.
Il mio colesterolo era inspiegabile, considerando il mio regime alimentare rimaneva un mistero. Nella mia famiglia nessuno era affetto da colesterolo. Il mistero s’infittiva. Però ai dottori non piacciono i misteri, sono restii ad arrendersi all’inspiegabile. Mi prescrissero una ricetta di statine per ridurre il colesterolo. Entrai a far parte della massa degli italiani statine-dipendente.
Nel pomeriggio del giorno dopo ero già a casa.
Smisi di mangiare qualunque cosa riguardasse zuccheri e grassi e iniziai a prendere le pasticche contro il colesterolo. Ero molto debole, passavo le giornate a dormire e la notte rimanevo sveglio. I dolori al corpo erano passati ma continuavo a non vedermi nello specchio. I fiori appassivano sul davanzale, mentre li guardavo.
Un mese dopo rifeci gli esami e scoprii che il colesterolo era sparito. Merito delle statine, a sentire il dottore, insisteva perché continuassi a prenderle, sennò sarebbe tornato.
Non ho più avuto nessuna perdita di sensibilità. Anzi, i miei sensi si erano acuiti al punto che una notte piovosa mi svegliai di soprassalto, pervaso tra un tremito nervoso e febbrile. Qualcosa di sconosciuto aveva aumentato la sua presa su di me, s’insinuava in ogni goccia del mio sangue. Percepivo le strida di uccelli della notte, percepivo il respiro di Lory che dormiva nel suo letto, percepivo il tuffo nell’ignoto.
Giuseppe Casa, scrittore, ha pubblicato fra gli altri: Veronica dal vivo (Transeuropa 1998 – Baldini Castoldi Dalai 2004), La notte è cambiata (Rizzoli 2002), I persecutori (Transeuropa 2006), Pit Bull (Nuovi Equilibri 2007, Ladolfi Editore 2013), La donna del lago (Lite Editions 2012), Blues (Koi Press 2012), Metamorph (Foschi 2013), Io non Sono Mai Stato Qui (Clown Bianco 2017), Speed (Castelvecchi 2020)