La madre di Eva è molte cose: una lettera d’amore e sensi di colpa, il primo romanzo di Silvia Ferreri, e un forte pugno allo stomaco.
Leggerlo è stato semplice e arduo allo stesso tempo, scritto bene, si divora, ma il suo contenuto, lo spirito, le immagini a volte son così prepotenti che si ha la necessità di prendersi una boccata d’aria.
Un romanzo ricco di contrasti, dicotomico a partire dai suoi personaggi fino ad arrivare alle sensazioni che produce.
La storia è quella di una madre che parla alla figlia, la quale è presente sulla scena o sotto forma di personaggio di un ricordo o come corpo immolato dietro alle mura della clinica serba, dove entrambe si trovano. La figlia, Eva, è una persona “in transito”, sin da bambina ha sofferto nel suo corpo di donna e ora ha la possibilità finalmente di vederlo trasformarsi in un corpo del genere che ha sempre sentito come proprio.
Il termine dicotomico usato all’inizio non è casuale, la storia è bipartita: da una parte vi è la sofferenza di una madre (filo grosso e robusto che il lettore è obbligato a seguire), dall’altra l’estenuante battaglia della figlia.
La prima protagonista da spettatrice di una condizione travagliata come la disforia di genere, ne racconta i passaggi, capendoli a tratti ma soffrendone per lo più, sentendosi colpevole di aver commesso l’errore di aver fatto nascere un corpo sbagliato, e portando al limite il suo amore per tentare di recuperavi.
La seconda, Eva, è testarda, a volte quasi adolescenziale, in trepidante attesa di mettere fine alla sofferenza giornaliera, che azioni semplici come il pisciare seduta le ribadiscono continuamente. Entrambe sono accompagnate da vari personaggi, uomini da atteggiamenti ambivalenti (mariti e padri, da proteggere e a cui affidarsi), figure istituzionali di forte umanità ed utilità (psicologi, avvocati e giudici), che fanno da comparse all’interno racconto.
La sofferenza che provano quasi tutte le persone che circondano Eva è anch’essa frutto di due condizioni non esclusive: da una parte la mai celata borghesia dei personaggi e dall’altra la loro semplice umanità; è la co-presenza di entrambe le ragioni che permette al lettore di empatizzare con i sentimenti del padre, dei nonni, ed infine con quelli della voce narrante.
Un’ulteriore bivalenza presente in tutte le pagine è quella che vi è fra anima, rappresentata dai sentimenti fino ad ora descritti, e corpo.
Il corpo delle due protagoniste è onnipresente. L’apice descrittivo è raggiunto durante due momenti, la pre/post gravidanza della madre, e la rinascita col corpo da uomo, della figlia, fasi di transizione entrambe, accostate per la loro somiglianza nel dialogo di uno dei personaggi di contorno
Gli elementi che ricorrono sono gli stessi: l’utero, i seni, i capezzoli, tutti descritti durante una loro trasformazione chi per un verso chi per l’altro.
Da lettrice, donna, ho boccheggiato a volte, durante le descrizioni dell’operazione, rimozione, rimodellazione, cose che stridono come unghie sulla lavagna, se si possiedono gli stessi organi, ed è una sensazione che, anche se con intensità minore, ho ritrovato leggendo la rappresentazione dei capezzoli doloranti durante l’allattamento, sarà per questo che non fatico a paragonare i due momenti, entrambi estremamente corporei, imprescindibilmente legati al cambiamento, alla rinascita.
Ed è proprio la rinascita che dopo diciott’anni passati in un corpo sbagliato, o passati a tormentarsi per colpe dovute al fato, o ad arrabbiarsi pur di non arrendersi alla necessità degli eventi, a far ricongiungere le due parti del romanzo, riunendole in un posto asettico come un ospedale, nell’alternarsi di lingue dure e sconosciute a lunghi silenzi.
n.d.a. L’uso del femminile per i riferimenti al personaggio di Eva, si riallaccia alla tendenza del romanzo.