Nietzsche scrisse “Dinnanzi a chi volesse fare delle questioni
morali materia di studio si aprirebbe ormai un immenso campo di
lavoro”.
É quello che fa Matteo Fais, senza darlo a vedere,
condensandolo nelle duecentotré pagine di “Storia Minima”,
attaccando e criticando tutto quello che c’è da criticare in
quest’universo senza fascino in cui siamo costretti a vivere.
Un mondo climatizzato, spianato, livellato, egualizzato,
denicotizzato, dealcolizzato, Xfactorizzato, Telethonizzato,
opinionizzato, pentastellato, moltalbanizzato, allineato, aizzato
contro tutto ciò che è discriminante. E così predichiamo la pace
ma alimentiamo l’odio, ci preoccupiamo di frenare l’inciviltà, ma
screditiamo l’aidos, denunciamo i misfatti del nichilismo ma le
diseguaglianze economiche aumentano. Il presente è un orrore.
I cattivi sentimenti non sono certo garanzia di buona letteratura, ma
quelli buoni, invece, tutto ciò che è piagnucoloso e frignante,
schifosamente Kitsch, romantico-populista, nazional-autofiction,
non reggono nessuna realtà. Un vero romanziere oggi, è trattato
come una volta si trattavano gli ambasciatori di cattive notizie.
È per questo motivo che non ci sono più romanzieri. La letteratura
oggi vuole unione, consenso, convergenza, inclusione. Ci sono i
Festival e i Saloni del Libro che attestano quali sono i gusti dei
lettori. Tutto è ridotto a questa neoletteratura per l’infanzia. Essere
contrari all’essere, come fa Matteo Fais, non è certo di moda. Lo
scrittore sardo non gioca a fare l’impiegato dell’ufficio
informazione della condizione umana, non traffica in cazzate, né
vuole fare la Grazia Deledda di turno (una basta e avanza), il
protagonista senza nome del suo romanzo, che ha studiato
filosofia non ha la “minima” idea di chi sia e sta provando a fare
l’insegnante “precario” a quattro euro l’ora, e intanto si occupa
solo di se stesso, del da fare che gli dà il suo cazzo e della sua
solitudine. “Se non fossimo tutti tanto interessati a noi stessi, la
vita sarebbe così scialba che nessuno riuscirebbe a sopportarla”,
direbbe con Schopenhauer. “Ciò che conta non è vivere ma vivere
bene”. Dice invece con Seneca. Godere di se stesso è l’unica
logica a fronte di un mondo in cui tutto sembra essere senza senso.
Un houllebecquiano godere liberamente, raccontato con l’ironia
feroce e stralunata di chi sa cogliere, impietosamente, il non-senso
ordinario dei commerci umani. Matteo Fais può ricordare Michel
Houellebecq, a cui l’autore spesso sostiene di richiamarsi, tranne
poi, nel finale di questo romanzo, feroce e spietato, affondare di
più il pedale della provocazione. A pag. 191 (mancano ancora
dieci pagine alla fine) si legge: “Purtroppo la vita richiede di stare
all’erta, di soppesare le conseguenze delle proprie azioni e io
davvero non ne avevo voglia, desideravo solo raggiungere una
stato di levità totale”.
Giuseppe Casa
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